Quando vestirsi diventa un atto di amore per l’ambiente
Sempre in prima linea per le campagne ambientali, Greenpeace lancia un nuovo campanello d’allarme che porta sul banco degli imputati il mondo della moda e il suo impatto sull’inquinamento terrestre.
Analizzando il problema su vari fronti, in primis Greenpeace ha preso in esame i trattamenti a cui sono sottoposti i tessuti, che risultano essere particolarmente dannosi per i capi di bassa qualità, e spesso finiscono nei rifiuti dopo una sola stagione perché è più economico bruciarli anziché rivenderli a un costo inferiore. Se da un lato il monito è quello di ridurre i consumi, privilegiando capi di maggior durata e miglior qualità, dall’altro l’attenzione si sposta sulla tracciabilità della filiera dalla produzione alla commercializzazione dell’abbigliamento.
Con la campagna Detox My Fashion del 2012, Greenpeace si era già impegnata a chiedere l’esclusione di precise sostanze tossiche dalla filiera della fibra tessile, che inevitabilmente si diffondono in tutto l’ambiente, nell’aria, nell’acqua, oltre che entrare in contatto con la nostra pelle. Pertanto l’organizzazione ha stilato un documento con regole e tempistiche precise e chiare da rispettare, che rientrano nel progetto Detox 2020.
A sette anni dal lancio di Detox 2020, esce il nuovo rapporto Greenpeace Germania (Destination Zero: seven years of Detoxing the clothing industry) in cui sono evidenziati i progressi di ottanta aziende, dall’alta moda all’abbigliamento sportivo, che rappresentano il 15% della produzione mondiale dell’abbigliamento, sessanta delle quali sono italiane. Tra queste sono presenti sia grandi brand (Valentino, Miroglio e Benetton) che numerose realtà tessili più piccole.
“Negli ultimi anni sono stati fatti grandi passi in avanti nell’eliminazione delle sostanze chimiche pericolose che inquinano le acque del Pianeta e, questo importante cambio di direzione nell’industria dell’abbigliamento, è stato senza dubbio innescato dalla campagna Detox”, dichiara Bunny McDiarmid, Direttrice Esecutiva di Greenpeace International. “Grazie alla campagna di Greenpeace le aziende hanno iniziato ad assumersi le proprie responsabilità sull’intero processo produttivo, non limitandosi a garantire la sicurezza del solo prodotto finito”.
Il primo step del progetto Detox 2020 è stato quello di individuare una lista delle sostanze chimiche presenti nella lavorazione dei tessuti, attivando una maggiore trasparenza e tracciabilità all’interno della filiera tessile, e facendo dichiarare alle aziende le emissioni pericolose per l’ambiente. Oltre a ciò, Greenpeace è riuscita a far eliminare completamente i PFC (composti poli- e per-fluorurati) che vengono utilizzati nei trattamenti idrorepellenti e antimacchia da parte del 72% dei marchi impegnati nel progetto.
Uno dei risultati più significativi è la sottoscrizione del primo impegno collettivo per eliminare le sostanze chimiche pericolose da parte di numerose aziende tessili del distretto di Prato, il più grande in Europa, e sotto la spinta di Confindustria Toscana Nord, è nato il Consorzio Italiano Detox, il cuore della rivoluzione tessile italiana, diventato un punto di riferimento per tutte le aziende nazionali che vogliono intraprendere un percorso serio e credibile per una produzione priva di sostanze chimiche pericolose. Le aziende del Consorzio Italiano Detox hanno già eliminato gran parte di queste sostanze dimostrando che anche per realtà industriali, rappresentanti della piccola e media impresa, produrre in modo pulito è possibile.
Ma quali sono le alternative all’uso di sostanze chimiche e tessuti inquinanti?
Oggi si possono ottenere tessuti colorati con ortaggi, radici e frutta, si tratta degli Agritessuti, una linea fashion green ed eco-friendly, novità nell’ambito della moda, fortemente voluta dall’Associazione Cia-Agricoltori Italiani Donne. Questa associazione si è distinta per aver unito due ambiti in cui è forte la presenza femminile, l’agricoltura e il tessile, e ha dato vita all’iniziativa Paesaggi da indossare, tra sfilate di moda e storie di impegno quotidiano. Questa realtà nasce anche dalla maggiore richiesta di capi sostenibili da parte dei consumatori, che è aumentata del 78% in due anni. Oggi oltre il 50% degli acquirenti è disposto a pagare di più per avere capi di origine naturale, così come succede in campo cosmetico.
“L’industria tessile è la seconda più inquinante al mondo” sottolineano le donne di Cia. “È responsabile del 20% dello spreco globale di acqua e del 10% delle emissioni di anidride carbonica. Una maglietta richiede in media 2.700 litri d’acqua per essere prodotta, un jeans fino a 10.000, utilizzando soprattutto fibre e coloranti di sintesi”. Come afferma la presidentessa Pina Terenzi: “È una filiera tutta da costruire ma di cui abbiamo il know-how”.
Secondo le stime del Cia infatti, la produzione di lino, canapa e gelso da seta coinvolge circa 2.000 aziende agricole italiane per un totale di 30 milioni di fatturato. Se la filiera degli Agritessuti venisse incentivata a livello statale queste cifre potrebbero triplicare già a partire dal primo triennio, coinvolgendo le 3.000 aziende produttrici di piante officinali, fra cui quelle di lavanda e camomilla, allargandone il campo e associandole alla tintura ottenute dagli scarti dell’agricoltura: foglie di carciofi, scorze di melograno, bucce della cipolla, residui di potatura di olivi e ciliegi, ricci del castagno.
Fra poco potremo dunque indossare abiti prêt-à-porter e da sera realizzati con stoffe biologiche e colorate con fiori, foglie, frutta e ortaggi, tutti Made in Italy. In linea con l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile dell’ONU, Greenpeace e Cia sono in prima fila per sollecitare la costruzione di nuovi sistemi di produzione a minore impatto ambientale, e che possano avere un ruolo positivo nei processi di riduzione dell’inquinamento, nel riciclo delle risorse e nella mitigazione dei cambiamenti climatici.
“La sostenibilità, come chiede l’ONU, deve permeare tutto il business del tessile – conclude Pina Terenzi – chiamato come gli altri settori a riformare se stesso: metodi di produzione salva-ambiente, con l’uso di tinture che sprecano meno acqua o l’utilizzo di rifiuti come materia prima. L’agricoltura dimostra di essere in prima linea in questo processo di cambiamento, con le donne promotrici”.
Nathalie Anne Dodd