La Terra ha solo il 3% degli ecosistemi ancora intatto
Lo studio del Dipartimento di Zoologia dell’Università di Cambridge mostra come siano poche le aree globali rimaste integre
Non ha nemmeno la doppia cifra il dato appena mostrato da uno studio pubblicato sul giornale scientifico Frontiers in Forests and Global Change. Il 3% è la percentuale degli ecosistemi rimasti intatti sulla Terra, un risultato di una lunga ricerca che ha coinvolto diversi centri internazionali, come il Dipartimento di Zoologia dell’Università di Cambridge, di Biologia dell’Università di Goteborg, e il centro di ricerca di Leipzig, in Germania. Sono solo alcuni dei partecipanti allo studio, e non poteva essere altrimenti visto che il tema di questa ricerca riguarda un bene universale, la Terra, celebrata nei giorni scorsi con l’Earth Day 2021. Il tema è di forte attualità, come dimostrano le manifestazioni e gli incontri sin qui organizzati per dare una svolta concreta verso una maggiore sostenibilità ambientale. Il presente non lascia però scampo a grosse interpretazione; e quel 3% emerso dalla ricerca su Frontiers non solo è preoccupante, ma è sintomo di un eccessivo sfruttamento delle risorse da parte dell’uomo, su cui bisogna basare una lunga riflessione sulle politiche da attuare nell’immediato futuro.
I dati della ricerca
Le regioni segnalate dal docente responsabile del progetto Andrew J. Plumptre riguardano le aree della foresta tropicali del Congo e dell’Amazzonia, della Siberia orientale, del Sahara e nella zona settentrionale del Canada, definite da questa ricerca con il nome di aree di biodiversità chiave, KBA. Sono le uniche zone che sono riuscite a conservare in maniera significativa la diversità delle specie, che in questo caso non hanno subìto cambiamenti radicali in assenza di interventi dell’uomo o di altre specie animali. Di queste aree solo l’11% rientrano nelle aree protette, mentre la fetta restante delle KBA potrebbe essere messa a rischio nel corso degli anni. Per realizzare questa mappa, si sono serviti di diversi dati che mettono in relazione l’impatto dell’uomo sulla natura e la scomparsa (o la riduzione) di alcune specie dal loro habitat che si trova a dover fare i conti con la sussistenza del proprio ecosistema. Uno degli elementi analizzati è, ad esempio, l’introduzione di alcuni esemplari non autoctoni e invasivi, come gatti, volpi e conigli che hanno cambiato la gerarchia ambientale, come si è visto nel caso dell’Australia.
Un futuro possibile per la Terra
Inizialmente le prime valutazioni venivano sostenute dalle immagini provenienti dal satellite, dove si poteva in qualche modo sostenere che tra le aree naturali presenti sulla Terra solo il 20 – 40% erano state intaccate dall’uomo. Ma questa ricerca pubblicata su Frontiers dimostra quanto sia labile questa stima, anche se basata su qualcosa di oggettivo. Il punto di vista dall’altro una cose, scendere verso la tundra, la savana o la foresta è un’altra. In effetti in quelle zone dove si stimava una maggiore ricchezza di fauna in realtà erano sovrastimate.
«Quelle che consideriamo in gran parte degli habitat intatti mancano di diverse specie animali che sono state cacciate dall’uomo – afferma il docente Andrew Plumptre al Guardian – oppure scomparse per via di alcune specie invasive o dalle malattie. È abbastanza spaventoso, perché mostra quanto siano unici i luoghi come il Serengeti, che hanno ecosistemi funzionanti e completamente integri». Una delle soluzioni possibili per invertire la rotta è che questa crisi riporti al centro il valore dell’ambiente non solo come contesto socio-economico, ma anche come soggetto protagonista della trasformazione dei singoli comportamenti umani. Il primo passo è di reintrodurre delle specie autoctone in alcune aree a rischio, raggiungendo la quota del 20% di aree di biodiversità chiave. Un obiettivo non solo raggiungibile, ma doveroso.
Riccardo Lo Re