L’anima sarda del MoMA
Da Sassari agli Usa, la designer Paola Antonelli è oggi Senior Curator of the Department of Architecture & Design del museo di New York e ha firmato una delle ultime mostre alla Triennale di Milano. Con la Sardegna nel cuore
Quando nasci in Sardegna, devi sapere che l’isola non ti lascerà più andare, accompagnandoti in ogni avventura della tua vita. Lo sa bene Paola Antonelli. Senior Curator of the Department of Architecture & Design del MoMA di New York, architetto e designer, ama definirsi sarda. I suoi primi due anni di vita a Sassari sono stati sufficienti a creare un legame indissolubile con la sua terra, espresso in una delle ultime mostre curate da lei, Broken Nature, alla Triennale di Milano.
Quando pensa ai momenti della sua infanzia, che cosa le viene in mente?
Sono dei piccoli frammenti legati a delle immagini. C’è una foto in particolare che mi ritrae da piccola sulla spiaggia di Porto Torres, in inverno. In quello scatto si vedeva una Sardegna autentica, lontana dall’immaginario dell’isola che avevano i turisti. Mi piace pensare che da quei ricordi si sia consolidata la mia connessione con il mare, che sa sempre dare ottimi consigli. Proprio sull’isola Rossa ho scelto di passare dagli studi di economia a quelli di architettura, una delle decisioni più importanti della mia carriera.
Quanto ha inciso Milano sulla sua carriera nel campo del design?
È stata fondamentale. Quando ho deciso di passare ad architettura, per me è stata una lunga traversata che mi ha portata sulla cresta dell’onda, come nel surf. Devi essere capace di usare le spalle quando cominci a prendere il largo; ma quando usi l’istinto e un po’ di coraggio, ti accorgi subito che ogni sforzo sarà ripagato.
La sua onda più grande è stata il MoMa. Com’è arrivata fino a New York?
Ci ero già passata come redattrice, intervistando i curatori delle varie mostre. Ma non avevo mai lavorato in un museo fino a quando, in California, non ho trovato un annuncio sul giornale I.D. Magazine. È grazie alla lungimiranza e all’intraprendenza di Terry Riley – ex responsabile Architecture and Design del museo – se sono riuscita a entrare al MoMA; e da lì, divisa tra l’Italia e Los Angeles, mi sono decisa a trasferirmi a New York.
Come definirebbe il design in poche parole?
C’è chi dice che il design sia nato con la rivoluzione industriale. Una relazione che si sta via via superando con la ripresa dell’artigianato e della cultura materiale. Per me coincide con la prima lancia di pietra. Per cui l’idea di costruire uno strumento che è allo stesso tempo espressione di un’estetica esiste da sempre.
Un concetto che si è evoluto fino a diventare digitale. Perché ha deciso di inserire i videogiochi al MoMA?
Il videogioco è qualcosa di poliedrico. Può essere visto come un’opera di cinematografia, d’illustrazione e abbiamo deciso di soffermarci su alcuni grandi esempi di design. PAC-MAN, ad esempio, era uno dei primi giochi labirinto bidimensionali mentre Tempest, con la sua grafica vettoriale, otteneva una profondità di campo sorprendente.
Colpirà anche lei la coincidenza tra Broken Nature e la nascita di movimenti come Fridays for Future.
Penso che ogni cosa accade per una ragione. La mia fortuna sta nel saper percepire dove andrà la cultura nei prossimi anni. Broken Nature ne è un esempio, scartato nel 2013 ma ripreso insieme ad Andrea Cancellato e alla Triennale di Milano nel 2018. L’idea era di pensare a tutte le relazioni con l’ambiente.
E nella mostra non potevano mancare le sue radici sarde, grazie ai lavori di Daniela Ducato e Chiara Vigo.
Nelle loro opere c’è qualcosa di pratico e di poetico. Una saggezza che adoro e che si rispecchia con l’accezione greca dell’economia. Entrambe diventano parte integrale della natura e rappresentano ciò che più preferisco del design contemporaneo.
Riccardo Lo Re