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L’antica lingua sarda del tabarchino

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03/06/2019

Era parlata in Spagna sull’isola di Nueva Tabarca a una ventina di chilometri da Alicante e, originariamente, a Tabarca, nell’odierna Tunisia, da cui prende nome

Se infiliamo un ferro da calza tra la Costa Smeralda e le isole minori dell’arcipelago del Sulcis, giù dritto su quel tratto di mare detto “il canale” che separa l’isola di Sant’Antioco da quella di San Pietro, sbucherà esattamente dove si è insediata la lingua madre detta tabarchino. Per molti è solo un dialetto ma per la regione Sardegna invece è una vera e propria lingua che, viaggiando per mare, ha portato con sé un patrimonio di regole grammaticali e fonetiche dalla Tunisi antica da cui proviene.
Si è mischiata al sardo, lingua quasi incomprensibile, quando le due isole diventarono l’approdo dei coloni genovesi provenienti da Tabarka,
Parliamo di circa trecento anni fa, dapprima considerati migranti in fuga i tabarchini erano in realtà esperti pescatori di corallo arrivati dalla Liguria, precisamente dalla cittadina di Pegli, a ovest di Genova, ora quartiere del capoluogo, discendenti di coloro che attorno al 1540 andarono a colonizzare Tabarka. Qui si integrarono e per più di duecento anni, continuando a parlare il genovese, mischiando le loro e le altrui abitudini, insegnando a pescare il corallo mentre apprendevano la liturgia solenne e antica della cucina del couscous ed improvvisamente si ritrovarono a chiamarlo “cascà” in una declinazione chiaramente di matrice genovese.
Tabarchini: finirono per essere chiamati così e a loro volta chiamarono tutto a loro modo in un’alchimia tra determinazione e curiosità, dando vita a una lingua che da allora non ha mai smesso di evolversi. Una lingua tra le minoritarie con maggior vivacità fra i parlanti: si parla a tutti i livelli della società, sia in famiglia sia durante le sedute del consiglio comunale, si parla tra i bambini in età scolare a Calasetta e Carloforte toccando percentuali che superano di gran lunga il cinquanta per cento, mentre tra gli adulti si raggiunge e supera l’ottanta per cento. La sua diffusione non si ferma certo a questi due comuni che rispettivamente diventano in tabarchino Càdesédda e U Pàize, ma interessa tutta l’isola di San Pietro e quella di Sant’Antioco, l’intero arcipelago del Sulcis e la parte sud occidentale della Sardegna.
I gruppi di emigranti che risiedono in Sardegna sono per lo più a Carbonia, Iglesias e Cagliari e raggiungono il numero di 5000, mantenendo un uso inalterato del tabarchino proprio come nella città di Genova. Anche vicino ad Alicante, nell’isola di Nueva Tabarca, possiamo sentire parlare questa lingua, perché qui i tabarchini rimasti schiavi e ceduti agli algerini, riscattati poi dal Re di Spagna Carlo III, ripopolarono l’isola seguendo un istinto di conservazione di cui la lingua è parte tanto fondante quanto inconscia.
Sono davvero molti i sardi che si scusano di parlare il dialetto in presenza di estranei, giustificandosi quasi si potesse confinare in qualcosa che ha a che vedere con la forza dell’abitudine: il tabarchino ha a che vedere con molto altro, dialoga attraverso la tradizione, in una sorta di consuetudine tranquillizzante che viene dall’ immutabilità. Si insinua come un mantra, tanto che ogni funzione religiosa termina con un’invocazione in lingua, ai matrimoni si può pronunciare il “sì, lo voglio” in tabarchino e anche Cappuccetto Rosso si trasforma in Cappucéttu Tabarchin.
Eppure per lo Stato italiano è semplice genovese dislocato, un’estensione di un dialetto che non si può considerare lingua minoritaria, passibile cioè di quella tutela prevista dalla legge 482/99 sulle minoranze linguistiche.
Per la regione Sardegna e per gli abitanti non fa alcuna differenza, a Carloforte esiste lo sportello linguistico per la divulgazione delle norme scritte e di pronuncia con strumenti comunicativi normalizzati a cura dell’Università di Sassari. Del resto questa lingua, che curiosamente ignora la parola “pioggia”, non ci spiegherà mai perché in circa trecento anni non sia rimasta alcuna traccia significativa degli altri forestieri che nell’isola decisero di trasferirsi.
Anna Maria Turra

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