Il fenomeno delle superstar del ring che indossano abiti tradizionali
In Bolivia, sono delle superstar. Tostissime. Ogni loro esibizione è un sold out. Attirano tifosi e turisti. Da tutto il mondo. Si fanno valere. Sono delle lottatrici. Letteralmente. Praticano il wrestling, o meglio la Lucha Libre, la sua versione messicana. Sono conosciute come le ragazze volanti. Ogni loro esibizione è una festa nello show del match. Hanno soprannomi che non sfigurano con quelli dei colleghi contro cui, a volte, combattono. Indossano abiti colorati. E come da tradizione di questo sport interpretano uno dei due personaggi: o il malvagio, detto rudo o il buono, cioè, tecnico, che solitamente vince, dopo una lunga e “combattuta” contesa, un modo per inviare un messaggio positivo al pubblico. Si chiamano Cholitas Luchadoras, sebbene Cholita, derivi da un diminutivo della lingua aymara che significa ‘meticcia”, termine dispregiativo usato dalla classe dominante nei confronti degli indigeni autoctoni.
Le Cholitas – diventate nel 2013 patrimonio culturale della città di La Paz – quindi, non solo hanno recuperato un vocabolo denigratorio assegnandoli un nuovo valore di segno positivo, ma sono diventate anche l’espressione visibile del rinascimento indigeno che ha subito un’accelerazione sotto la presidenza di Evo Morales. E, inoltre, hanno ribaltato il significato originario del capo di vestiario imposto dagli Spagnoli quando incorporarono il paese nel loro Impero delle Indie come metodo di controllo sociale e politico, trasformandolo in un forte simbolo identitario.
L’ampia gonna detta Pollera, lo scialle legato all’altezza del petto, la blusa e la bombetta come riscatto. Politico e sociale. Un messaggio così forte ed efficace da conquistare perfino la passerella da quando diversi stilisti hanno iniziato a ispirarsi per le loro creazioni proprio agli abiti tradizionali indio. Non male per persone, destinate in gran parte a essere solo bambinaie, donne delle pulizie, cuoche o commercianti di mercato. Agli inizi, comunque, praticare il wrestling era una cosa solo da uomini. Una scappatoia in un paese dai forti connotati razzisti dove essere indio significava essere fortemente e palesemente discriminato, una sorta di apartheid, che contemplava il divieto di entrare in alcuni ristoranti, prendere dei mezzi pubblici o abitare in altre zone considerate di pregio.
Popolare fin dagli anni Cinquanta la Lucha rimaneva terreno tabù per l’altra metà del cielo. Praticarlo per loro era un atto di grande coraggio, non solo un’affermazione di personalità. Diventava, quindi, una sorta di rito liberatorio per sfogare la frustrazione generata dalla violenza e abusi domestici, combattere l’emarginazione, per cercare la solidarietà tra donne e per allontanarsi da un passato di prevaricazione e miseria. Superato il divieto seguirono anni di compensi differenziati tra uomini e donne. Poi, grazie a persone come Carmen Rosa, le cose iniziarono a mutare.
Carmen, che in realtà si chiama Ana Polonia Choque, è stata una delle prime a salire sul ring. Meglio conosciuta come La Campeona, la Campionessa, per i suoi successi, nel 2008, grazie alla celebrità conquistata, convinse altre donne ad aiutarla a formare una Cholitas Wrestling Foundation gestita da donne con l’obiettivo di ottenere una quota molto più generosa dei profitti fino a quel momento quasi inesistenti. Una grande vittoria, contro il pregiudizio sociale che le vedeva relegate in un ruolo di secondo piano e inadatte a certi sport. A lei sono seguite le nuove leve. Come chi segue le orme familiari, ad esempio Claudina, la cui intera famiglia è nel wrestling: «Lo ha praticato mio padre e lo praticano mio fratello e mia sorella. Esserlo per me è stato una cosa naturale».
Altre, invece, si avvicinano alla Lucha per caso. O per necessità. Per arrotondare, come Mirian Mamamni, parrucchiera, che sul ring diventa, La Simpática. Molte sono madre single, con figli a carico. La cosa su cui molte insistono è che per loro si tratta di una scelta. Volontaria. E quindi un affrancamento. E un modo per affermare la propria esistenza. Non per nulla Tatiana Monasterios, responsabile del dipartimento del turismo di El Alto, ha dichiarato che «questi spettacoli rivendicano anche il ruolo della donna aymara, che si dimostra intraprendente e capace di prendere parte a uno sport così rischioso».
Ecco perché in Bolivia la Lucha è considerata un lavoro al pari di un altro poiché offre possibilità d’indipendenza economica e di successo.
Fabio Schiavo