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Madre Terra: nell’agro-biodiversità il futuro del pianeta?

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28/03/2022

L’importanza delle politiche agricole e ambientali al centro dell’intervista alla Dott.ssa Elena Macellari

Gli assetti economici, sociali e politici contemporanei, oltre a dover fare i conti con l’emergenza climatica, oggi ci costringono a confrontarci anche con le conseguenze della pandemia da Covid e le devastanti guerre in corso.

L’agricoltura riveste un ruolo centrale nel sostentamento del pianeta e il suo impatto sulle nostre vite richiede nuove riflessioni e interventi che la rendano davvero sostenibile. Il nostro sistema agricolo, prevalentemente industriale, si basa quasi interamente sull’utilizzo di combustili fossili – sia per la creazione dei composti agro-chimici sia per la meccanizzazione e l’irrigazione – il cui approvvigionamento è sempre più difficile e dispendioso. Oltre a intaccare le riserve idriche del pianeta, le pratiche dell’agricoltura industriale incidono del 25/30% sulle emissioni globali di gas serra, contribuendo ad accelerare i cambiamenti climatici e provocando seri problemi per la salute dei coltivatori e dei consumatori. Tutto ciò non può essere sostenibile a lungo termine.

Appare dunque impellente un cambiamento di direzione verso pratiche produttive sostitutive, e l’agroecologia si pone come mezzo efficace per tornare a recuperare i principi di biodiversità utilizzati dall’uomo per milioni di anni. Questo tipo di coltivazione rigenerativa e sostenibile è un’alternativa seria ed ecologica all’agricoltura industriale, e molte realtà la stanno già mettendo in atto con risultati sorprendenti e pieni di potenzialità.

Per chiarirci alcuni aspetti fondanti dell’agroecologia e della bio-diversità incontriamo l’agronoma e scrittrice Elena Macellari, che nel suo ultimo libro Custodi della biodiversità agricola, pubblicato per Ali&no Editrice, ne traccia un quadro storico e metodologico e si confronta con dieci piccoli imprenditori italiani che stanno sperimentando pratiche innovative e promettenti.

Dottoressa Macellari, nell’ambito delle ricerche che ha condotto nel settore dell’agro-biodiversità quali ritiene che siano i punti di forza e quali i benefici maggiori derivanti dalla sua applicazione?

Sono esattamente trent’anni che il concetto di biodiversità è stato definito a livello mondiale. La convenzione sulla biodiversità stipulata a Rio de Janeiro nel 1992, durante il vertice internazionale di 172 paesi, impegnava concretamente i paesi aderenti a sviluppare la produzione agricola e industriale con tecnologie e metodi rispettosi delle risorse di aria, suolo e acqua. Questo obiettivo poteva essere raggiunto solo mettendo in pratica un tipo di agricoltura basato sui principi dell’agroecologia, che quando adottati dai produttori di cereali, ortaggi e vegetali hanno, come elemento qualificante, la circolarità del sistema produttivo. Pertanto l’azienda agricola diventa essa stessa un organismo che si auto-sostiene, limitando al massimo gli sprechi di energia e la sua acquisizione dall’esterno, soprattutto da fonti fossili. Tutto quanto viene prodotto con l’agroecologia non crea scarti perché la materia organica viene recuperata per produrre compost, gli animali contribuiscono ad apportare sostanza organica al terreno e si cibano dei prodotti delle aziende stesse. L’autonomia dalla risorsa acqua si ottiene con sistemazioni dei terreni atte alla sua raccolta e conservazione, e non alla dispersione. La riduzione dell’uso delle macchine al minimo indispensabile, e adeguandole alle dimensioni aziendali, preserva i terreni dal costipamento. Questi sono solo alcuni dei benefici diretti dell’applicazione dell’agroecologia che vanno in una direzione diametralmente opposta ai metodi applicati dal modello agroindustriale.

Nel suo ultimo libro ha avuto modo di confrontarsi con realtà agricole italiane lungimiranti, rispettose dell’ambiente e del pianeta; che tipo di aziende sono e come applicano i principi di agro-biodiversità?

Da molti anni mi occupo di agricoltura biologica e non condivido le scelte delle cosiddette aziende “convenzionali” che fanno uso di diserbanti, pesticidi, praticano la monocultura, utilizzando soprattutto sementi ibride estremamente costose e che richiedono grandi apporti di fertilizzanti e a volte grandi quantità di acqua. Ho quindi scelto una nicchia di imprenditrici e imprenditori biologici che rappresentano circa il 15% delle aziende agricole italiane, in particolare coloro che prestano una speciale attenzione alla ricerca di specie locali, alla sperimentazione di specie edibili dimenticate, esotiche o antiche, e alla correlazione tra più elementi fondanti del sistema agricolo: gli spazi coltivati, le siepi, i boschetti, il rapporto con il consumatore, l’educazione ambientale, il mondo delle api e la biodiversità. L’applicazione di questi principi richiede un cambio di paradigma dell’imprenditore, rispetto a quello degli ultimi 50 anni di storia agraria italiana: si predilige la qualità dei prodotti e il rispetto della terra alla quantità della produzione. Ad esempio, se in un’azienda convenzionale l’agricoltore tende a iperspecializzarsi riducendo al minimo le colture in produzione, l’agroecologo della produzione agricola si spinge verso una conoscenza più ampia possibile delle specie e varietà tradizionali del suo territorio, integrandole con quelle che potrebbero essere di interesse per un mercato in evoluzione continua, con diete alimentari che devono soddisfare un sempre più ampio ventaglio di consumatori. In una società in cui molte malattie sono diventate croniche soprattutto a causa di un’errata alimentazione, la risposta viene proprio dall’agricoltura. Diabete, malattie cardio-vascolari, celiachia, intolleranze ai lieviti e ai latticini, solo per citarne alcune, sono la conseguenza di cinquant’anni di produzioni agroindustriali che hanno sfamato un intero paese con pasta prodotta da una sola specie di grano duro, con pane di farine raffinate, con la carne di animali allevati in maniera intensiva e senza cura per il loro benessere.

Tra gli agricoltori a cui ho dato voce c’è in particolare un’azienda agricola, la Viola di Torre San Patrizio, che da anni collabora in progetti nazionali di ricerca come quello presentato la scorsa estate nelle Marche. Al convegno era presente la Scuola Superiore di Pisa, l’Università di Ancona e l’Associazione Rete Semi Rurali con il professor Salvatore Ceccarelli, ideatore del miglioramento genetico-partecipativo. Da questi studi sono nati progetti di filiera tra produttori di grani antichi, panificatori e pizzaioli.

Un interessante punto di vista da lei trattato è la visione sistemica dell’agricoltura, in cosa consiste?

La visione sistemica, quale approccio allo studio e alla comprensione della vita, rappresenta oggi una modalità di superamento della visione meccanicistica e deterministica, che si focalizza sul singolo individuo e i singoli organi senza considerare le relazioni che sussistono tra di loro. Secondo la visione sistemica un organismo o un sistema vivente è una totalità integrata le cui proprietà essenziali non possono essere ridotte a quelle delle sue parti. L’assunto del pensiero sistemico coniato dal filosofo austriaco Christian Ehrenfels (1859-1932) si sintetizza con «Il tutto è diverso dalla somma delle sue parti». Se il pensiero sistemico può valere e fornire soluzioni innovative, come dimostrano gli studiosi negli ambiti più vari, da quello sociale a quello politico o ancora dell’organizzazione delle comunità urbane, tanto più facilmente si adatta al processo di produzione di un’azienda agricola dove il vivente – che fa da modello – è il protagonista assoluto. L’agricoltore deve confrontarsi con l’ambiente che lo circonda quotidianamente – il suolo, il clima, l’acqua, le piante, gli animali – con un atteggiamento di collaborazione e osservazione.

Quali sono le difficoltà a cui vanno incontro gli imprenditori agricoli nel momento in cui scelgono di cambiare le prassi di coltivazione per dedicarsi ai principi di sostenibilità? E quali sono le tecniche più originali adottate?

Non si può negare che coloro che diventano consapevoli di far parte di un sistema vivente in pericolo e di essere loro stessi responsabili con la produzione agricola del mantenimento o della degradazione ambientale, decidendo di cambiare rotta devono affrontare diverse difficoltà iniziali. Devono innanzitutto ripristinare le condizioni di fertilità del terreno, avendo cura del suolo in quanto elemento chiave dell’“organismo” azienda agricola: integrare cioè tutto il materiale organico possibile nel terreno, non lasciarlo mai nudo (senza copertura vegetale), lavorarlo il meno possibile in profondità e ripristinare un sistema di rotazione di colture efficace che alterni colture molto esigenti in elementi nutritivi a colture apportatrici di azoto, come quelle delle leguminose. Devono poi migliorare la biodiversità coltivando più specie possibili (orticole, cerealicole, officinali, spontanee, edibili e mellifere) e ripristinando aree a siepi, cespugli spontanei del territorio, boschetti, piccoli invasi; scegliere specie adatte al clima e alla zona con poche necessità di acqua, e cercare sementi non ibride anche tra agricoltori locali, o avvalendosi di case del seme o di associazioni di coltivatori biologici e biodinamici. Le tecniche più adeguate sono non tanto originali quanto recuperate da tradizioni antiche purtroppo dimenticate a causa del cinquantennio della “rivoluzione verde”, che ha messo al centro l’acquisto di sementi ibride, le concimazioni minerali e la meccanizzazione spinta, indipendentemente dalle caratteristiche locali. Posso citare alcuni esempi come l’integrazione delle tecniche della consociazione, il reimpiego di semente propria non ibrida come le varietà cosiddette antiche (di grano, farro, lenticchie, ceci, fagioli), il ricorso a sementi sviluppate da progetti come Selianthus per un girasole non ibrido, o l’innovativo metodo messo a punto da Martina Confaloni insieme a Gilberto Croceri (“Alternative BeeKeeping Tecnique”) con l’uso di arnie ‘fatte su misura’ che non fanno uso di fogli cerei. Infine il metodo all’Agricoltura Organica e Rigenerativa di cui parla l’agronomo Matteo Mancini, conoscitore raffinato della rigenerazione del suolo, della corretta nutrizione delle piante e dell’applicazione delle buone pratiche agricole, supportate dalle conoscenze scientifiche e tecniche acquisite negli ultimi decenni, tra cui la cromatografia, l’utilizzo dei microelementi, di preparati organici e minerali e dell’acqua.

Per concludere, quanto pensa che ognuno di noi possa contribuire per preservare le biodiversità e quanto il nostro stile di vita può essere un fattore determinante per dare una svolta al nostro sistema produttivo?

Questa domanda è l’occasione per esprimere un pensiero che da molti anni sostengo, in termini di stili di vita e comportamenti ideali, e che ciascuno di noi dovrebbe adottare se intende vivere secondo natura, ovvero rispettandola tutti i giorni e in ogni momento della sua esistenza. Quanto vi dico può sembrare difficile da mettere in pratica, ma in realtà richiede solo piccole e semplici scelte che comportano un salto di livello in termini di qualità di vita, rendendoci più stabili, consapevoli e felici. Approvvigionarsi del cibo dai piccoli rivenditori vicini a casa, o presso i mercatini di quartiere; cercare produttori di qualità che vendono in azienda e crearsi una lista di produttori per ogni necessità; consumare vegetali e frutta di stagione; evitare la grande distribuzione, che fa perdere molto tempo e spendere il 40-50% in più rispetto a una spesa mirata dei soli prodotti utili; ricorrere al minimo agli acquisti on line per ridurre costi e consumi di energia; sostituire parte del tempo dedicato ai social e a internet e dedicarsi alla produzione in proprio di biscotti, dolci, pane, marmellate, erbe, sughi, sott’oli, ecc. Durante il tempo libero andare alla scoperta del territorio con escursioni per imparare a conoscere erbe e frutti spontanei. Ciò che mangiamo dovrebbe essere il più importante tra i nostri acquisti quotidiani e pertanto di altissima qualità, preferibilmente locale e biologico. Risparmiando sul superfluo, sulle cose effimere e di moda, facendo acquisti consapevoli, eserciteremo un potere enorme sul mercato alimentare. Non possiamo più permetterci di contribuire allo spreco di cibo, anche per un dovere morale, ed è urgente un cambio di mentalità per sentirci liberi e indipendenti. Tutto questo è possibile!

Nathalie Anne Dodd

Foto di copertina: Azienda Coa Sa Mandara a Sorgono, Sardegna, tratta dal libro Custodi della biodiversità agricola, Ali&No Editrice.

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