Una raccolta di memorie che incuriosisce e fa riflettere nel cuore della Val Tiberina

È un’idea apparentemente semplice quella del Piccolo museo del diario che a Pieve Santo Stefano rende accessibile la vicenda dell’uomo, nel cuore della Val Tiberina, in un paese di appena 3mila anime, uno scrigno piccolissimo fa luce su 9mila incredibili vite normali.

Nato per raccontare l’Archivio Diaristico Nazionale e le preziose testimonianze autobiografiche che esso conserva, grazie a un’iniziativa lanciata da Saverio Tutino, partigiano e giornalista inviato dell’Unità. È lui che stava dove si svolgevano le storie, è lui l’uomo che partecipa alla fondazione di Repubblica ed è lui che capita per caso a Pieve Santo Stefano con la sua idea di un archivio di comuni autobiografie. Ora è l’istituzione dalla sorprendente portata che conserva memorie private che da storie singole e personali sono diventate storie collettive e universali.

Sarà la stanza del lenzuolo a dare lo spunto per aprire il piccolo museo, dal quale la storia che fa il giro del mondo è certamente quella di Clelia Marchi, la contadina mantovana che, con la sola seconda elementare, fa dell’autobiografia il proprio conforto per la perdita dell’amato Anteo, il marito scomparso nel 2006. Si ricorda di quando la sua maestra, parlando degli Etruschi, rivela la pratica di avvolgere i defunti nel tessuto. Trascrive così una vita intera su di un lenzuolo matrimoniale, ne emerge un sodalizio che ha a che fare con le storie d’amore nella fatica di un mondo contadino tra gli anni Venti e Quaranta. Accanto all’insolita ostensione e nel titolo di quello che diventerà il suo libro, Gnanca na busia, neanche una bugia, compare un legame di coppia intessuto da due universi predestinati.

Ma si legge anche di Orlando Orlandi Posti e dei suoi foglietti nascosti nel collo della camicia, storie di assurdità imperdonabili degli eccidi, Fosse Ardeatine, scambi epistolari, cose che arrivano dritte dal primo Ottocento per dar luogo alla vita vera in uno straordinario database digitalizzato. Eppure, la tecnologia non si vede nel piccolo museo: molto legno caldo e poco, pochissimo high tech tra i cassetti della memoria.

Una manciata di guide espertissime e appassionate, selezionate sulla base della loro vibrazione interiore che si consegnano in ostaggio del visitatore, in uno spazio piccolo di tre sole stanze dove però accadono cose giganti. Un percorso che è un insieme di capriole nella mente se una visita può durare anche un’ora e mezza. Di colpo da una teca si apre la storia di Vincenzo Rabito un signore siciliano che si definisce “inalfabeta” ma riesce, con un’Olivetti 22, a scrivere un diario che diventa un racconto, una storia sgrammaticata e ironica che Einaudi pubblica e che poi diventa film nel film dal titolo Terra matta. Tutto rimbalza costante, indifferente tra gli strumenti dei diversi periodi storici e attraversa carta, pellicola e web; poi c’è la vita di un commerciante di stoffe della fine del 1700, tra coordinate di spazio di una geografia stravagante, si apprende di quanto il mondo intero sia attraversato dagli italiani, sempre pronti a mettersi alla prova, per lavoro per lo più ma soprattutto per curiosità. Apparizioni sorprendenti di ragazzi cinesi e di indiani d’America, senza presunzioni intellettuali, illetterati che hanno strappato la loro vita con la scrittura in un resoconto che spesso è racconto amaro di chi ce l’ha fatta e quindi lo può raccontare. Quelli che per errore si immagina abbiano vissuto ai margini della storia e sono balie, pastori, domestiche, contadini, fabbri o minatori; la scrittura diaristica spazia da un panorama di lavoratori di tutti i tipi e smentisce che la storia sia fatta solo dai potenti. In un arco narrante vastissimo appaiono piante e oggetti che non conosciamo. Ma anche borghesi, intellettuali, pittor, nobili, aristocratici, giudici e sindacalisti. Sono un coro di solisti e ci mostrano un personale punto di vista spesso non ufficiale. Il politico Luigi Re ci racconta dai suoi quaderni lo spostamento della capitale da Torino a Firenze in un modo che diversamente non avremmo mai potuto sapere, lo fa da avvocato e da uomo e ne esce quasi la contro storia di qualcosa che sembra completamente estinto, qui si ribaltano luoghi comuni che abbiamo accettato o si svelano nuove materie di auto conoscenza: moltissime le scritture di donne che ci permettono di guardare un‘aristocrazia consumata tra le stanze di matrimoni combinati e soprusi. E poi gli orfanotrofi degli anni Sessanta, la storia dell’immigrazione italiana in ogni direzione anche verso la malattia mentale, quella senza manicomi, quella della Mafia, degli sfruttati e degli oppressi, quella della prima e seconda guerra mondiale e poi quella coloniale in presa diretta mentre si cercava di rendere abitabile il deserto; pescate gocciolanti da quel mare di assurdo, singolarmente appaiono come autobiografie sbalorditive, messe tutte insieme sono il mosaico storico della nazione.

La fisicità di certi diari, compilati nel tentativo di dare senso a vite difficili, rivela la povertà di alcuni luoghi e insieme la loro fibra nel saper resistere. Tanto somigliano a Pieve Santo Stefano, la cittadina rasa al suolo nel 44, a Saverio Tutino uscito vivo dalla guerra perduta mentre lo stato crolla e il re è in fuga.

Anna Maria Turra

Credits foto Luigi Burroni

You May Also Like