Il paradosso dei padiglioni della Biennale, da un editoriale di Angela Vettese
Ormai gli allestimenti collaterali rubano la scena a quella che viene venduta come imperdibile ed inimitabile esposizione principale. La risultante debolezza della mostra centrale, a parere della critica Angela Vettese, caratterizzata da un ritmo espositivo basilare e elementare, ha fatto sì che i padiglioni prendessero il sopravvento. La multicellularità della Biennale infatti, è da decenni motivo di accesa disputa/contrasti nei confronti dei suoi organizzatori. Se la Biennale di Venezia si è salvata dalla sua obsolescenza, è stato grazie ai padiglioni nazionali e a ciò cui hanno dato origine; e questa la franchezza con la quale la critica trevigliese riapre il dibattito iniziato ufficialmente nel ‘68 da Lawrence Alloway, in The Venice Biennale, 1895-1968 (from salon to goldfish bowl, Greenwich, Connecticut: New York Graphic Society, 1968). Definendo la Biennale come “una bolla da pesce rosso’, diede il via alla intollerabilità verso l’incapacità del mantenimento del titolo/attribuzione/orgoglio di mostra d’avanguardia. Dieci anni dopo Jan Van Der Marck scriveva sulla nota rivista Artforum “La Biennale di Venezia è una di quelle mostre che si rifiutano di morire”, dirigendo però, la sua indignazione verso un elemento in particolare “quei pittoreschi padiglioni venissero rasi al suolo” (The Venice Biennale: Can It Rise Again?, “Artforum”, september 1978, vol. 17, no 1, pp 74-77, p. 74). Citando numerosi saggi e riviste, Angela Vettese porta a galla i rovinosi e recidivi inciampi della scena artistica veneziana in occasione della Biennale. Ad oggi è inesorabile attribuire a gran voce la responsabilità dello svecchiamento, e dell’altrimenti antiquata e sorpassata/desueta rassegna annuale, al ruolo dei padiglioni. ‘La – loro – mancata abolizione tutte le volte che sono parsi obsoleti è una benedizione: consente il pluralismo delle visioni curatoriali, ci lascia vedere mostre provocatorie (come quest’anno nel caso del Kosovo) oppure tradizionali ma ben fatte (come la Francia) oppure sperimentali (Polonia e il Vaticano, che finalmente sceglie un luogo di sofferenza (come il Carcere femminile della Giudecca), annota con chiarezza Vettese. Il rischio di una visione unitaria viene estirpato da questi singolari allestimenti, estranei dalla generalità di un canone artistico internazionale. Il panorama variegato con il quale arricchiscono la Mostra Internazionale d’Arte, non è affatto da sottovalutare, soprattutto in un tempo in cui curatori eccelsi sono chiamati a ricoprire incarichi entrando in una vorticosa corsa agli immancabili appuntamenti tra diversi paesi. Nel caso di Pedrosa: da Sidney a Kassel, da Istanbul a Sharjah e Riyad, da Venezia ai più rinomati musei del mondo, e viceversa. È interessante vedere anche l’arte fatta da chi non fa parte di alcun mainstream, perché concettualmente distante da ogni parola d’ordine o perché troppo nascosto nel suo contesto locale. Il Padiglione della Cina Popolare, per fare l’esempio di una realtà gigantesca e solo apparentemente conoscibile, è bene che lo curi un cinese che conosce almeno la lingua degli artisti che sceglie, anche se ciò non ne garantisce la qualità.
Riferimenti:
https://www.artribune.com/arti-visive/2024/04/biennale-venezia-mostre-collaterali-padiglioni-nazionali/
La Biennale di Pedrosa
Il promettente piano di Pedrosa non è sufficiente. L’ennesimo commento di Angela Vettese
Angela Giovanna Vettese, critica d’arte italiana, esce con un tagliente pezzo che ha come protagonista il curatore Adriano Pedrosa. Tanto acclamato dalla critica quanto messo in discussione dalla stessa, da dicembre 2024 Pedrosa è sulla bocca di tutti.’Finché dura questo stato di energia veneziana capace di attirare investitori internazionali, la Biennale offre sempre un piatto ricco anche quando il curatore designato pare avere vissuto una crisi d’identità’. Così invita alla lettura Vettese, porgendo un assaggio della razionale critica posta all’evento in questione e di colui che ne fa le veci. L’intervento del curatore ufficiale può essere designato, come Vettese, un atto di coraggio. Ingaggiando artisti privi di esperienza espositiva alcuna, ha fatto sì che gallerie e sponsor di questi ultimi, non si scagliassero sulla mostra. Così facendo Pedrosa esclude e allontana il noioso/classico cliché di partecipanti scontati prevedibili. Netta selezione con il principale obiettivo dell’inclusione, ha comportato ‘un eccesso di opere etnografiche, documentarie, a volte al limite della manifattura iperlocale di arazzi, ricamini e ricordini’ Con queste parole Angela Vettese manifesta il suo disappunto nei confronti delle scelte mirate di Pedrosa, ammettendo/precisando che sia proprio questo suo aspetto variopinto, a rendere il padiglione principale un must. La celebre critica italiana, autrice di numerosi saggi, si augura che l’edizione 2024 sia particolarmente redditizia per le iniziative artistiche lagunari, carenti di risorse da parte degli ormai 50mila abitanti, queste dovrebbero poter contare sull’esagerato flusso di turisti annuali, tali da poter/riuscire ad incrementare e sostentare la scena artistico-culturale veneziana, permettendole di creare un unico museo. In modo tale da eliminare la concorrenza e promuovendo, di conseguenza, la partecipazione ai progetti culturali.
Riferimenti:
https://www.artribune.com/arti-visive/2024/04/biennale-angela-vettese-venezia/
La rigidità della tradizione sfocia nella rivoluzione
L’immobilità statuaria di una delle rassegne d’arte più tradizionaliste, ha posto le fondamenta per la sua stessa salvezza.
La voce del direttore generale si disperde in una Biennale dove la norma che gli attesta la decisione del tema generale, si smarrisce tra le tante identità che le si accorpano. Donors, gallerie e musei, infatti, risultano economicamente autonomi, essendo la mostra centrale l’unica realtà finanziata dall’evento. Mantenere uno statement estetico omogeneo risulta, per forza di cose, un’impresa irrealizzabile. L’inevitabilità di un assortimento policromo, lo dimostra pienamente. La versatilità dell’evento, agli occhi di una buona fetta della critica internazionale, talmente caotica, si rivela il nucleo concettuale attorno al quale orbita la Biennale stessa. Se non fosse per la duttilità dimostrata e acquisita nel corso delle edizioni, l’evento avrebbe detto addio alla fama mondiale, condannandosi al collasso. Sono le innumerevoli personalità che vi hanno partecipato ad averne scritto la storia. Figure tale Teresa Margolles, la quale non avrebbe altrimenti potuto vestire il Palazzo Rota Ivancich (a due passi da Piazza San Marco) del suo crudo realismo. Un urlo di protesta che si scaglia contro le migliaia di vittime causate dal narcotraffico messicano. Una lotta alla droga che dura imperterrita da decenni, che macchia di rosso, proprio come le indelebili chiazze di sangue lasciate sulle tappezzerie che ricoprivano il padiglione del Messico nel 2009. Traumi invalicabili, impossibili da scrostare dai secolari pavimenti di piastrelle, ostinatamente lavati e rilavati dai parenti delle vittime in una performance dal tono dannatamente amaro. Neppure la chiesa di San Stae (2005) o Misericordia, sarebbe mai potuta essere convertita in moschea dall’inaspettato padiglione islandese nel 2015. La medesima che sei anni prima, nel 2009, fu allestita con le installazioni dell’artista anticonformista svizzera Pipilotti Rist. All’anagrafe Elisabeth Charlotte Rist, fu il bersaglio di una presa di posizione unilaterale da parte del parroco Don Aldo Marangoni. La Commissione federale per l’arte si dichiarò a dir poco indignata sulla censura di Homo sapiens sapiens, firmata Rist e allestita nel Padiglione Svizzero, causata dalla presenza di creature angeliche ignude raffigurate nel Paradiso terrestre. ’Atto di censura che ha violato il diritto dell’arte di esprimersi liberamente e ha leso la libertà del pubblico di farsi un giudizio indipendente su un’opera’ ci tiene a calcare la Commissione. Il parroco, avendo affittato la chiesa al Padiglione in occasione della 51/a edizione veneziana , ebbe tutto il potere di emanare il vago e vergognoso annuncio della cancellazione credendo di scampare la polemica con un neutro ‘causa di problemi tecnici’. Ad indurlo all’intervento, a suo dire, obbligato, furono le accese proteste di un gruppo di ferventi fedeli, che venne pienamente accontentato dalla curia del Patriarcato di Venezia, la quale ha rifiutato la riapertura dell’esposizione malgrado il tempestivo intervento dell’Ufficio federale della cultura (UFC). Le profonde, scomode e pericolose riflessioni indotte dall’artista tedesca Anne Imhof non avrebbero potuto alimentare il proprio fuoco se non fosse per la miccia accesa e alimentata dalla propensione della Biennale verso orizzonti pluricellulari.
Sibilla Panfili
Foto: wikipedia